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Fallimento del marito dopo la separazione: tutele per l’assegno di mantenimento della moglie

Quando, dopo la separazione, interviene il fallimento del marito obbligato a versare l’assegno di mantenimento alla moglie, per questa esistono tutele limitate.

In questo periodo post crisi economica potrà accadere spesso che un soggetto tenuto al pagamento di somme a titolo di mantenimento non possa rispettare tali pattuizioni per evidenti difficoltà economiche. In taluni casi queste difficoltà economiche possono diventare talmente croniche da sfociare in un fallimento.

Mensilità non pagate prima della pronuncia del fallimento

Nel caso in cui il marito avesse smesso di pagare l’assegno prima della pronuncia del fallimento, la moglie potrebbe insinuarsi al passivo per il credito relativo alle mensilità già scadute.

Gli ultimi tre mesi, tra l’altro, entrano a far parte dei crediti privilegiati cioè quei crediti che possono essere soddisfatti prima degli altri.

Mensilità non pagate successivamente al fallimento

Le mensilità successive alla pronuncia di fallimento non rientrano nella massa fallimentare quindi non trovano tutela fino al termine della procedura di liquidazione e rischiano, pertanto, di non essere mai ricevute dalla moglie.

La moglie in questo caso ha due possibilità per tentare di ricevere un sostegno economico.

Se il marito continua a percepire redditi da lavoro può chiedere al Giudice delegato di ricevere una parte della somma destinata al mantenimento del fallito.

Possibili rimedi per la moglie

La moglie, in ogni caso, ha diritto di chiedere al Giudice delegato per il fallimento del marito di ricevere un sussidio alimentare, dimostrando di non avere il necessario per provvedere ai suoi bisogni primari.

Le possibilità che questa richiesta trovi buon fine possono dipendere, anche, dall’eventuale attività lavorativa svolta dal marito e dall’entità dei beni personali rimastigli.

È opportuno precisare che:

  • se il marito è socio di una società per azioni o di una società di capitali, il fallimento di questa società sarebbe relativamente preoccupante per la moglie in quanto non andrebbe a toccare il patrimonio personale del marito che, pertanto, avrebbe maggiori possibilità di continuare a pagare l’assegno ed un’interruzione dei pagamenti dell’assegno di mantenimento dovuta al fallimento potrebbe essere facilmente smentita.

  • se il marito fosse titolare di una piccola impresa individuale o socio di una società di persone (snc, sas ecc.) o, ancora, lavoratore dipendente il fallimento sarebbe più preoccupante dato che coinvolgerebbe anche il patrimonio personale.

Cosa succede all’assegno di mantenimento in favore dei figli

L’assegno di mantenimento in favore dei figli segue la stessa disciplina di quello in favore del coniuge ad eccezione di una maggiore facilità di ottenere il sussidio alimentare in caso di bisogno della prole minorenne.

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Unione civile ed impresa familiare: stessi diritti di moglie e marito

In caso di impresa familiare gestita da una persona che ha celebrato l’unione civile, per il partner esistono gli stessi diritti previsti dal Codice civile in favore di moglie e marito.

Nel nostro paese è molto frequente la prestazione di lavoro in piccole o medie realtà aziendali o professionali familiari, che sono la rete capillare che sostiene l’economia italiana.

L’impresa familiare è definita come l’impresa o l’attività professionale in cui collaborano in maniera continuativa il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo dell’imprenditore.

La Legge Cirinnà ha previsto che anche il convivente unito civilmente possa essere annoverato fra i familiari che collaborano all’impresa familiare godendo dei relativi benefici. In particolar modo la parte unita civilmente è parificata al coniuge, con l’unica eccezione che i suoi parenti entro il secondo grado, che sarebbero ipoteticamente affini per l’imprenditore, sono esclusi dato che l’unione civile non prevede il vincolo dell’affinità.

Quali sono i diritti della parte unita civilmente?

 

Il diritto principale della parte unita civilmente consiste nel partecipare agli utili dell’impresa, ai beni acquistati ed all’incremento dell’azienda stessa in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.

Altro aspetto molto importante è quello che riguarda la possibilità di godere del mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e, parimenti, di partecipare alla gestione dell’impresa ed alle decisioni circa l’indirizzo aziendale che devono essere prese a maggioranza tra tutti i familiari.

Cosa succede in caso di successione ereditaria?

 

Nell’impresa familiare il diritto di partecipazione non può essere ceduto se non a favore degli altri familiari e con il consenso di tutti i partecipi. Se l’azienda viene venduta o cessata la quota può essere liquidata in denaro anche in più annualità.

Questa prelazione ha effetto anche in caso di morte di un familiare o dello stesso imprenditore. Tale aspetto è di importanza rilevante soprattutto nelle sorti di una coppia unita civilmente. Proviamo ad immaginare, per esempio, a due conviventi lesbiche: una possiede, con i suoi due fratelli, una piccola impresa che si occupa di giardinaggio e l’altra vi collabora.

Nel caso in cui l’imprenditrice dovesse morire la convivente avrebbe la certezza di poter ereditare la quota della propria compagna continuando il proprio lavoro senza correre il rischio di essere estromessa dal resto della famiglia e, in particolare, dai due fratelli.

E se i fratelli agissero alle sue spalle prendendo decisioni senza il suo consenso oppure venendo la sua quota? In questo caso la partner superstite potrebbe ricorrere in Tribunale per tutelare il proprio diritto e la propria partecipazione.

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Quali sono i diritti e i doveri che nascono dal matrimonio per moglie e marito | Conseguenze giuridiche

Dal matrimonio nascono precisi diritti e doveri per moglie e marito per i quali pronunciare il fatidico SI significa iniziare una nuova vita a due, un’unione che possa durare per sempre e permetta loro di costruire una famiglia. Non rispettare questi doveri comporta importanti conseguenze giuridiche.

Il matrimonio, infatti, è un vero e proprio contratto che si occupa anche di regolare in maniera precisa i rapporti tra i coniugi e, principalmente, i diritti e doveri di moglie e marito che sono uguali davanti alla legge.

Questa importante parificazione, già riconosciuta dalla Costituzione, è stata recepita definitivamente con la Riforma del diritto di famiglia del 1975, che ha adeguato la normativa precedente eliminando alcuni elementi che, nella legislazione pre-riforma, stabilivano una disciplina favorevole al marito rispetto che alla moglie (per fare un esempio potremmo citare la normativa sull’adulterio che era considerato reato per la moglie ma non per il marito).

Doveri matrimoniali di moglie e marito: elenco

 

Il primo dovere coniugale è l’obbligo alla fedeltà: la fedeltà non è intesa solo a livello fisico, ma anche morale. L’obbligo di non tradire la moglie o il marito si estende quindi dalla sola sfera sessuale a quella morale. Il secondo dovere che i coniugi devono rispettare è quello della reciproca assistenza materiale e morale: la coppia si deve impegnare a fornire supporto l’una all’altro sia a livello economico sia a livello morale. I coniugi, infine, devono contribuire ai bisogni della famiglia, in misura proporzionale alle proprie possibilità. In ultimo il matrimonio impone il dovere alla collaborazione reciproca e, seppure in via attenuata date le realtà sociologiche degli ultimi anni, il dovere alla coabitazione.

 

Doveri matrimoniali e conseguenze giuridiche

Al di là dell’ovvia valenza morale questi doveri hanno anche una precisa validità giuridica: la loro violazione comporta infatti conseguenze come l’addebito della separazione e il risarcimento del danno a carico del coniuge che non li rispetta. Se si ritiene che l’altro coniuge non tenga fede ai suoi doveri coniugali, oltre all’ovvio tentativo di chiarimento reciproco, è possibile in prima battuta inviare un richiamo tramite il proprio Avvocato per convincere il coniuge a cambiare atteggiamento. Se non c’è alcuna volontà di collaborazione, è possibile rivolgersi al Tribunale e avviare un’azione giudiziaria per fare in modo che sia il Giudice ad indicare la strada migliore per il bene della famiglia. Nel caso in cui la crisi sia irrevocabile si dovrà, invece, procedere con la separazione.

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Quando i debiti di moglie e marito possono essere pagati con i beni in comunione

Se moglie e marito hanno dei debiti possono dover utilizzare i beni in comunione per soddisfarli. Quando uno dei coniugi contrae debiti che devono essere, ovviamente, pagati può nascere il timore di perdere beni o denaro importanti per tutta la famiglia. La possibilità o meno per i creditori di rivalersi sui beni che fanno parte della comunione dipende da due fattori: il soggetto che ha contratto il debito e il momento in cui questo è stato contratto.

I debiti contratti congiuntamente dai coniugi

 

Se due coniugi contraggono dei debiti in maniera congiunta mentre è in vigore il regime di comunione legale, questi ultimi possono essere oggetto delle pretese dei creditori qualora la coppia non riesca a saldare il debito, quindi si potrà rischiare di subire il pignoramento di un bene o del conto corrente. Se il valore dei beni della comunione non è sufficiente a saldare il debito, i creditori possono rivalersi anche sui beni personali dei coniugi, in misura pari alla metà del credito.

I debiti contratti singolarmente dai coniugi prima del matrimonio

 

Se uno dei coniugi contrae un debito prima del matrimonio, a rispondere è soltanto il patrimonio personale del coniuge: i beni che rientrano nella comunione legale non possono essere toccati dai creditori. Lo stesso vale nel caso in cui i debiti siano stati acquisiti da uno dei due coniugi per donazione o successione: così come il bene ottenuto per successione o donazione non rientra fra i beni che fanno parte della comunione, allo stesso modo i creditori non possono rivalersi sui beni comuni.

 

I debiti contratti singolarmente dai coniugi durante il matrimonio

 

Opposta è la situazione nel caso in cui il debito sia contratto durante il matrimonio. In questo caso ci può essere di aiuto un esempio, perché la regola è complessa. Ipotizziamo che un marito, titolare di una ditta individuale di traslochi, contragga un debito che non riesce a ripagare, egli è sposato in comunione dei beni ed ha paura che la propria famiglia perda la casa, in comproprietà con la moglie. I creditori si dovranno rivalere innanzitutto sul patrimonio aziendale, ad esempio sul camion, sull’immobile che ospita la sede della ditta, e sul conto corrente aziendale. Successivamente dovranno rivalersi sui beni e sul conto personale del marito. Se però il valore di questi beni non sarà sufficiente a saldare il debito, i creditori potranno procedere anche con il pignoramento dei beni in comunione. Attenzione però perché i creditori potranno rivalersi soltanto sulla metà del valore dei beni, pari alla quota spettante al marito.

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Marito e moglie in disaccordo sull’indirizzo della vita familiare, interviene il Giudice

Per moglie e marito essere in disaccordo sull’indirizzo della vita familiare può essere un vero problema tanto da costringerli all’intervento del Giudice.

Prendiamo per esempio due coniugi sposati da molti anni che non si capiscono più e non riescono ad accordarsi neppure sul colore della carta da parati. Se il disaccordo diventa profondo e, soprattutto se riguarda aspetti importanti della vita familiare, non trovare la quadra può diventare un grave problema. Pensiamo a cosa succederebbe se i due coniugi fossero costretti a dibattere sul cambiare casa, sul cambiare città, sulla scuola dei figli…insomma su argomenti non liquidabili con un semplice litigio.

 

Il disaccordo sull’indirizzo della vita familiare

L’ordinamento stabilisce che i coniugi debbano concordare tra loro “l’indirizzo della vita familiare”. Si tratta dell’insieme di regole e di condizioni di vita comune che i coniugi devono assumere di comune accordo e che entrambi sono tenuti ad attuare.

In caso di disaccordo insanabile fra i coniugi, è prevista la possibilità per entrambi di rivolgersi a un Giudice, che dovrà cercare di individuare una soluzione che possa mettere d’accordo la coppia. Qualora ciò non fosse possibile, il Giudice può adottare il provvedimento che ritiene migliore per le esigenze della famiglia: questa decisione però può essere presa solo se l’intervento è richiesto da entrambi i coniugi e se riguarda delle questioni davvero rilevanti. La decisione del Giudice, infatti, è vincolante, e non è appellabile: il coniuge che non la rispetta può rischiare di vedersi addebitata la separazione, qualora in seguito al disaccordo la coppia dovesse arrivare alla decisione di mettere fine all’unione.

Quando è possibile richiedere l’intervento di un giudice

 

Come abbiamo accennato, oltre alla scelta del luogo di residenza della famiglia, il concetto di indirizzo della vita familiare include altri elementi che possono incidere in maniera rilevante sulla vita del nucleo familiare, quali ad esempio l’attività lavorativa dei coniugi, il tenore di vita, la scelta di avere figli o meno e, in generale, la messa in pratica dei doveri coniugali. Tutte le decisioni relative agli “affari essenziali” debbano essere prese tenendo conto degli interessi di ciascun componente della famiglia. Se uno dei coniugi decide in maniera unilaterale su un “affare essenziale”, l’altro può quindi richiedere l’intervento di un Giudice per cercare di ristabilire l’armonia.

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Cosa succede al giudizio di adozione del minore se marito e moglie si separano

Cosa avviene quando il giudizio di adozione del minore si scontra con la crisi coniugale della coppia e marito e moglie si separano? La lunghezza del processo di adozione può in alcuni casi far sì che le ultime fasi della procedura si compiano in una situazione anche molto diversa rispetto a quella iniziale o a quella durante la quale il Tribunale ha accertato l’idoneità dei coniugi a diventare genitori adottivi. Mentre sembra finalmente giungere al traguardo la speranza di avere un bambino, tra i coniugi si rompe qualcosa: il loro legame è messo a dura prova e si accorgono che l’amore sta svanendo. In questi casi, oltre alla paura ed allo smarrimento della fine dell’unione, potrebbe subentrare anche il timore di vedere svanire il sogno di essere genitori. Dobbiamo precisare, però, che anche se i rapporti fra i coniugi si dovessero deteriorare al punto da rendere inevitabile la separazione, questo non necessariamente porterebbe all’interruzione della procedura di adozione.

Il Tribunale deve salvaguardare l’interesse dell’adottato

Nel caso in cui la coppia decidesse di separarsi durante l’affidamento preadottivo, la procedura prevista per l’adozione può comunque completarsi: su istanza di uno dei coniugi o di entrambi, si può procedere all’adozione nei confronti di uno solo o di entrambi i genitori. Il Tribunale è a questo punto tenuto a ripetere la procedura di valutazione dell’idoneità del singolo o della coppia, per accertare la capacità di garantire al minore stabilità economica, affetto ed educazione. Poiché l’obiettivo principale è salvaguardare l’interesse del bambino, se il Tribunale accerta che l’affidamento sta procedendo bene e che si è creato un legame importante fra il minore e la famiglia adottiva, può decidere di far proseguire la procedura di adozione nonostante i problemi fra i genitori adottivi: in questo caso la logica dei Giudici è quella di anteporre l’interesse del bambino rispetto al requisito della coppia sposata, con l’obiettivo di evitare ulteriori traumi al minore.

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Comunione dei beni: rientrano i beni acquisiti a titolo originario dalla moglie o dal marito

Moglie e marito che scelgono la comunione dei beni come regime patrimoniale devono sapere che vi rientrano tutti gli acquisti dei coniugi, o di uno di essi, anche se a titolo originario. L’unica eccezione sono i beni strettamente personali, per esempio quelli derivanti da un’eredità o da un risarcimento danni.

Entrano a far parte della comunione, però, i frutti dei beni di ciascun coniuge (anche se personali) e i proventi delle loro rispettive attività, a patto che non siano stati consumati al momento dello scioglimento della comunione. Anche le aziende gestite da entrambi i coniugi, se costituite dopo il matrimonio, fanno parte dei beni in comune.

Il bene acquisito per usucapione rientra nella comunione

 

Anche il bene acquisito per usucapione, nel momento in cui è in vigore il regime di comunione, rientra a tutti gli effetti a far parte del patrimonio comune dei coniugi. Prendiamo il caso di un artigiano, sposato in comunione dei beni, che ha sempre svolto la propria attività in un seminterrato, utilizzato anche come cantina dall’intera famiglia.

Pur non essendo l’effettivo proprietario del locale si è sempre comportato come se lo fosse, svolgendo la dovuta manutenzione e pagando le utenze. Dopo 20 anni potrà far riconoscere il suo possesso ed essere dichiarato proprietario dell’immobile. Al termine di una causa, infatti, l’artigiano potrà essere riconosciuto proprietario per usucapione, un modo di acquisto della proprietà che si definisce “a titolo originario”.

In questo caso l’acquisto, come detto, cadrà in comunione, e, quindi, la moglie dell’artigiano diventerà legittimamente proprietaria del 50% del bene acquisito e avrà quindi diritto a gestirlo in maniera congiunta con il marito.

 

Il momento rilevante è quello in cui si completa l’acquisto del bene

 

È il momento in cui si conclude l’acquisto ad essere rilevante per decidere se il bene cadrà o meno in comunione. Per semplificare potremmo dire che anche se, durante buona parte dei vent’anni di possesso l’acquirente non era sposato, avrà valore il fatto che il ventesimo anno sia caduto durante la comunione. Allo stesso modo, se uno dei coniugi possedesse un bene durante il periodo della comunione ma ne diventasse proprietario per usucapione soltanto dopo lo scioglimento, l’altro coniuge non potrebbe avere alcuna pretesa nei confronti del bene in questione.

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Separazione e divorzio quando il coniuge (marito moglie) è irreperibile

Il coniuge può ottenere la separazione o il divorzio anche se il marito, o la moglie, è irreperibile. Succede più spesso di quanto si possa immaginare, soprattutto quando i coniugi non hanno figli, e da anni non hanno più contatto tra loro, che uno dei due si rivolga all’avvocato specializzato in diritto di famiglia dicendo: “vorrei separarmi (o divorziarmi) ma non so più dove abita mia moglie (o mio marito), ho anche provato a chiedere un certificato di residenza al Comune ma risulta irreperibile, e ora come faccio?”. Può, infatti, succedere che il coniuge non sia più rintracciabile al Comune dell’ultima residenza conosciuta perché, ad esempio, ha lasciato la casa familiare senza comunicare il nuovo indirizzo oppure non è stato trovato durante l’ultimo censimento o, ancora, è un italiano che si è trasferito all’estero senza iscriversi all’AIRE (Anagrafe italiani residenti all’estero) e neppure ha comunicato alcunché al Consolato italiano o – ed è il caso più ricorrente – è un cittadino straniero che ha lasciato l’Italia senza più dare alcuna notizia di sé.

In questi casi di irreperibilità è, comunque, sempre possibile ottenere la separazione (o il divorzio). Sarà tuttavia necessario iniziare un procedimento contenzioso. La separazione e il divorzio possono essere più veloci: in Tribunale la separazione e il divorzio si possono chiedere insieme, con un unico atto, con l’assistenza di un avvocato, preferibilmente un avvocato divorzista. Non c’è più bisogno di fare prima un ricorso per chiedere la separazione, e poi un secondo ricorso separato per domandare il divorzio: per avere direttamente il divorzio immediato basterà fare una domanda cumulativa.

La separazione non viene cancellata, ci sarà sempre: non si tratta quindi di un “divorzio senza separazione”, ma ora i tempi per ottenere prima la separazione e poi il divorzio breve si sono velocizzati. L’avvocato quindi depositerà per il proprio cliente un ricorso in Tribunale ed entro 3 giorni il Tribunale fisserà – con decreto – la prima udienza. L’udienza è fissata in tempi brevi, ossia entro 90 giorni dal deposito del ricorso.

Il ricorso ed il provvedimento di fissazione dell’udienza, dovranno essere notificati, secondo una specifica procedura, all’altro coniuge.

Non è invece possibile iniziare una separazione (o un divorzio) consensuale per il semplice fatto che all’altro coniuge non si potrebbe far sottoscrivere il ricorso di separazione (o di divorzio) in quanto è, appunto, irrintracciabile. Tuttavia, se – a seguito della notifica – anche l’altro coniuge dovesse comparire dinanzi al Tribunale, sarà possibile trasformare il procedimento da contenzioso a consensuale, a patto – ovviamente – che i coniugi trovino un accordo sulle condizioni.

Quando il coniuge è irreperibile bisognerà quindi chiedere l’assistenza di un avvocato perché deve provvedere ad effettuare la notifica dell’atto giudiziario con un’apposita procedura prevista dal Codice di Procedura Civile, solitamente presso l’ultima residenza nota, ma potrebbero essere necessari anche altri ulteriori accorgimenti.

All’udienza, qualora il Giudice dovesse ritenere che la notifica si sia perfezionala, e che quindi si sia instaurato il contraddittorio, dichiarerà la contumacia dell’altro coniuge. In sostanza, anche se l’atto giudiziario non sia stato effettivamente ricevuto, o ritirato, dal destinatario (quindi dall’altro coniuge), il Giudice riterrà la notifica come se fosse avvenuta e, quindi, riterrà l’atto come se fosse stato ricevuto. Tutto questo a condizione però che siano state rispettate, nella notifica, alcune regole di procedura civile a garanzia e a tutela del destinatario. Il Giudice a questo punto dichiarerà l’altro coniuge contumace, ossia lo considererà come se fosse presente in causa, e continuerà il processo civile fino ad arrivare alla sentenza.

L’assenza dell’altro coniuge – il quale tendenzialmente avrebbe potuto sia opporsi alle domande e sia proporne altre – rende generalmente la causa un po’ più veloce, potendosi così arrivare alla sentenza di separazione (o di divorzio) in tempi assai rapidi.

Per ottenere il divorzio sarà sufficiente che:

1) ci sia stata la separazione: basta anche semplicemente la sentenza “parziale” di separazione che viene emessa già dopo la prima udienza, senza dover attendere la conclusione della causa

2) siano trascorsi 6 o 12 mesi a seconda che la separazione sia stata pronunciata a seguito di un giudizio consensuale o giudiziale.

La causa di separazione o divorzio giudiziale si introduce sempre con un ricorso ma si arriva dal Giudice alla prima udienza già con tutto in modo che sia più facile (e veloce) decidere. Quindi l’avvocato dovrà subito inserire negli atti, in maniera dettagliata e completa, tutti i fatti più rilevanti e, soprattutto, tutti i mezzi di prova (documenti, ricevute, foto, testimoni ecc.). Considerando che il procedimento si svolgerà in contumacia e, quindi, l’attività istruttoria sarà più breve, sarà possibile ottenere il divorzio più velocemente.

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Assegno di divorzio per il coniuge economicamente indipendente o autosufficiente | Ritorna la valutazione del tenore di vita goduto dalla moglie durante il matrimonio

La sentenza n. 11504/17 della Cassazione aveva cambiato la rotta del divorzio in Italia perché aveva negato l’assegno di mantenimento per il coniuge economicamente autosufficiente o indipendente. In particolare aveva eliminato la valutazione del tenore di vita goduto dalla moglie durante il matrimonio.

A seguito della pronuncia della Suprema Corte, infatti, il parametro sul quale i Giudici dovevano basare le proprie valutazioni in merito all’assegno di mantenimento per il c.d. “coniuge economicamente debolenon poteva più essere il tenore di vita avuto durante il matrimonio bensì la situazione in cui si trovava effettivamente il richiedente al momento della domanda di divorzio.

La pronuncia è scaturita dal ricorso presentato dall’imprenditrice Lisa Lowenstein nei confronti dell’ex marito, ed ex ministro dell’Economia Vittorio Grilli, contro la sentenza della Corte d’Appello di Milano che le aveva negato l’assegno di mantenimento divorzile.

Anche la Cassazione aveva negato l’assegno di divorzio all’ex moglie facendo tuttavia una diversa valutazione e introducendo innovativi criteri che, per molti, apparivano del tutto in linea con l’evolversi dei tempi, andando quindi a cambiare, in parte, la concezione del matrimonio.

Criterio applicato dalla Corte di Cassazione

Secondo la Cassazione infatti era necessario “superare la concezione patrimonialistica del matrimonio inteso come sistemazione definitiva” in quanto “è ormai generalmente condiviso nel costume sociale il significato del matrimonio come atto di libertà e di autoresponsabilità, nonché come luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita, in quanto tale dissolubile. Si deve dunque ritenere che non sia configurabile un interesse giuridicamente rilevante o protetto dell’ex coniuge a conservare il tenore di vita matrimoniale”.

A cambiare, quindi, era stato proprio il punto di vista su cui doveva incentrarsi la valutazione del Giudice in Sede di divorzio: come criterio principale non contava più, dunque, lo stile di vita goduto dai coniugi durante il matrimonio ma la valutazione dell’autosufficienza o dell’indipendenza economica dell’ex coniuge che chiede l’assegno. Ad esempio, se in Sede di divorzio la moglie avesse domandato al Tribunale di condannare il marito al pagamento di un assegno mensile di mantenimento, bisognava che il Giudice prima accertasse che la moglie non fosse in possesso di redditi idonei, o di un patrimonio mobiliare e immobiliare che le garantisse una rendita o che avesse “la stabile disponibilità” di un’abitazione. Allo stesso modo, nel caso in cui la moglie richiedente fosse stata senza lavoro, il Giudice avrebbe dovuto anche accertare se avesse le “capacità e possibilità effettive di farlo e se quindi, si stesse eventualmente sottraendo dal cercarsi una occupazione, senza alcun giustificato motivo. Ne conseguiva in merito all’assegno divorzile “se è accertato che il richiedente è economicamente indipendente o effettivamente in grado di esserlo, non deve essergli riconosciuto tale diritto”.

Conseguenze della decisione sui divorzi già pronunciati

Una svolta epocale dunque, capace di abbattere un principio che aveva retto granitico per oltre trent’anni e che vedeva come un dogma intoccabile il diritto del coniuge economicamente più debole a mantenere lo stesso tenore di vita avuto durante il matrimonio e che, bisogna ammettere, ha regalato una certa sicurezza a tutti quei divorziandi che hanno sempre e solo contato sulle risorse economiche dell’altro coniuge.

Questi nuovi criteri di calcolo valevano non solo per chi doveva divorziarsi, o per chi aveva in corso un divorzio, ma anche per chi il divorzio – consensuale o giudiziale – lo aveva già affrontato. Per questo motivo anche chi stava  pagando un assegno di mantenimento all’ex moglie, poteva – in caso vi fossero i presupposti – presentare un ricorso di modifica delle condizioni di divorzio, chiedendo al Tribunale di poter ridurre l’importo versato o, in certi casi, di eliminarlo completamente.

Nuova pronuncia della Corte a Sezioni Unite

Le Sezioni Unite della Corte, in ogni caso, con la sentenza del 11 luglio 2018, n. 18287 hanno introdotto nuovamente il criterio del tenore di vita e del contributo fornito alla conduzione della vita familiare in una concezione “composita” dell’assegno di mantenimento per la determinazione del quale deve essere fatta una valutazione più armonica e comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali.

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Divorzio e criteri per calcolare l’assegno di mantenimento per il coniuge: caso della moglie senza reddito

La Cassazione ha parzialmente modificato i criteri per determinare l’assegno mantenimento in caso di divorzio nei confronti della moglie che non ha reddito ampliando la valutazione rispetto al semplice tenore di vita avuto dal coniuge durante il matrimonio e precisando che debba essere considerato anche il contributo fornito alla conduzione della vita familiare in una concezione “composita” dell’assegno di mantenimento per la determinazione del quale deve essere fatta una valutazione più armonica e comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali di moglie e marito.

Questa novità, in pratica, apre la strada ad una differente valutazione delle situazioni patrimoniali e lavorative dei coniugi che potrebbe portare anche alla revisione di molte pronunce di divorzio – consensuali o giudiziali – già emesse sulla base del criterio del tenore di vita.

Cosa cambia per il coniuge che chiede l’assegno di divorzio?

Andiamo ad esaminare una situazione concreta per capire cosa cambia per chi chiede l’assegno di divorzio.

Immaginiamo una moglie separata, di mezza età, laureata ma casalinga – dato che, durante il matrimonio, i coniugi avevano concordemente deciso che lei si sarebbe occupata dei figli. Attualmente in fase di separazione ha ottenuto un assegno di mantenimento versato dal marito, dirigente d’azienda. Durante l’unione la coppia, anche se non si è mai lasciata andare a lussi sfrenati, ha goduto di un buon tenore di vita: è riuscita anche ad investire i risparmi accantonati, acquistando alcune case poi divise al 50% in fase di separazione.

In sede di divorzio si dovrà valutare se il coniuge richiedente sia economicamente autosufficiente o abbia le capacità effettive per esserlo grazie, per esempio, a proprietà immobiliari, ad un patrimonio personale e la parte richiedente dovrà inoltre dimostrare di essersi resa parte attiva per ottenere i mezzi necessari per vivere ma il tenore di vita goduto con il marito, la contribuzione alla vita familiare e le possibilità economiche dell’epoca matrimoniale saranno considerate rilevanti per determinare la conferma o meno dell’assegno.

Come agire per dimostrare in ogni caso l’impossibilità di avere reddito

Potrà essere utile, ad esempio, iscriversi a corsi di formazione che possano riqualificare il curriculum vitae di una persona fuori dal mercato del lavoro, oppure inserire il proprio profilo nelle banche dati online che svolgono selezione del personale per conto di aziende terze, così come ricorrere al “collocamento” ordinario e parimenti potrà essere utile inviare vari curricula alle diverse aziende in cerca di personale. Un atteggiamento passivo e di “attesa” da parte della richiedente potrebbe essere visto negativamente dai Giudici e portare ad un rigetto della domanda. Nel caso che abbiamo tratteggiato per esempio, l’ex moglie potrebbe essere considerata in grado di mantenersi grazie ai risparmi accantonati durante il matrimonio o magari grazie alla proprietà degli immobili da far affittare e, quindi, potrebbe vedersi negare l’assegno.

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Assegno di mantenimento rivalutabile anche su accordo di moglie e marito | Rivalutazione annuale Istat

L’assegno di mantenimento (ma anche l’assegno divorzile) riconosciuto in favore del coniuge economicamente più debole prevede per legge la rivalutazione annuale in base agli indici Istat ma è rivalutabile anche sulla scorta di un accordo differente raggiunto da moglie e marito, per esempio in funzione del variare delle condizioni economiche delle parti.

Cos’è la rivalutazione dell’assegno di mantenimento

L’ammontare dell’assegno di mantenimento che il giudice riconosce in sede di separazione, o divorzio, viene calcolato in funzione a un determinato potere d’acquisto. Col passare del tempo, però, la svalutazione della moneta potrebbe determinare una consistente perdita di tale potere. È per questa ragione che è previsto dalla legge un aggiornamento annuale dell’assegno di mantenimento sulla base di indici Istat, di solito il FOI.

Tale rivalutazione è obbligatoria e si applica anche se il Giudice non l’ha espressamente indicata nella sentenza di separazione o divorzio. Di conseguenza, essa è sempre dovuta e sempre esigibile, entro un termine di prescrizione quinquennale.

All’atto pratico chi deve pagare l’assegno ogni anno deve calcolare, e versare, la cifra “aggiornata” rispetto a quella determinata dal Giudice.

La rivalutazione su diverso accordo delle parti  

 

Marito e moglie, però, possono anche accordarsi per un adeguamento personalizzato. È il caso frequente, per esempio, del beneficiario che si trasferisce all’estero, in un paese dove la moneta soffre di un’inflazione più gravosa che in Italia.

In questo caso esiste una regola inderogabile: la somma adeguata secondo l’indice concordato non potrà mai essere inferiore a quella disposta dal Giudice che, quindi, rimane il limite minimo da versare. Pensiamo ai casi in cui l’inflazione sia negativa ed un aggiornamento in tal senso potrebbe portare ad ottenere un importo inferiore a quello originario.

L’obbligato non potrà versare l’importo adeguato ma dovrà pagare, almeno, la somma decisa dal Giudice in sede di separazione.

In questi casi dovremo stare attenti ad un ulteriore aspetto relativo al recupero delle somme eventualmente non versate.

L’adeguamento Istat è automatico e, in caso di mancato versamento, permette di procedere con il diretto recupero del credito (precetto) anche se nella sentenza o nel verbale di separazione o nella sentenza di divorzio non è espressamente previsto.

Un adeguamento personalizzato, invece, deve essere chiaramente ratificato altrimenti l’eventuale recupero, in caso di inadempimento dell’obbligato, non è possibile in via diretta. La parte interessata dovrà incardinare un apposito giudizio per far riconoscere dal Tribunale la diversa pattuizione intervenuta in sede di separazione o divorzio o in un momento successivo tra i coniugi.

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Sono valide le modifiche per migliorare gli accordi di separazione e divorzio decise da marito e moglie senza andare in Tribunale

Talvolta marito e moglie possono decidere modifiche agli accordi di separazione o divorzio che permettano di migliorare la condizione di entrambi. Queste modifiche sono valide anche senza ottenere l’assenso del Tribunale.

Gli accordi extra-separazione o divorzio

Andiamo con ordine e facciamo un esempio concreto tenendo presente che quanto diremo in relazione alle condizioni di separazione vale anche per le condizioni di divorzio. Marito e moglie decidono di separarsi. Insieme sono riusciti a regolare i rapporti economici e a definire le modalità di affido e collocazione dei figli minori ed il loro accordo è stato omologato dal Tribunale.

Dopo un paio d’anni dalla separazione il padre cambia lavoro. Potrà guadagnare di più, ma anche avere più tempo a propria disposizione. Decide quindi, di sua spontanea volontà, di aumentare il mantenimento mensile che paga alla moglie, per fornire un aiuto in più nella gestione delle spese quotidiane.

Inoltre, in accordo con lei, aumenta il numero di giorni di visita ai figli, che ora si fermano a dormire nella sua nuova casa anche un paio di sere infrasettimanali.

La moglie accetta di buon grado le novità, ma dopo qualche mese inizia a preoccuparsi per le possibili conseguenze che potrebbero derivare per una modifica degli accordi non approvata dal Tribunale. Teme, in particolare, che lo spontaneo aumento dell’assegno da parte del marito possa danneggiarla se fosse costretta a rimborsargli il denaro eccedente percepito.

Validità degli accordi tra le parti

Dobbiamo chiarire che, ormai nella prassi, è ammesso il valore delle modifiche pattuite dai coniugi successivamente all’omologazione della separazione. L’unica condizione posta è che si tratti di modifiche migliorative non lesive dei diritti e i doveri delle parti in causa e dei figli.

La possibilità d’intervenire sugli accordi è ammessa non solo per ciò che riguarda gli aspetti economici, ma anche la gestione dei figli. In tal caso, naturalmente, ogni eventuale modifica è riconoscibile a patto che non venga sacrificato l’interesse dei minori. Ad esempio, non sarebbe possibile un’intesa che vieti ai figli di vedere il padre a fronte di un aumento della quota di mantenimento a loro destinata.

La “nuova” regolamentazione, non essendo stata ratificata dal Tribunale, vale solo informalmente. Questo significa che la moglie non dovrà restituire quanto recepito in più. Dall’altro lato se il marito dovesse venir meno ai nuovi accordi non formalizzati, la moglie potrà agire direttamente per il recupero.

In cado di inadempimento di una delle parti, infatti, fa fede solo quanto indicato nel verbale o nella sentenza di separazione. La moglie dovrebbe agire per chiedere la modifica delle condizioni secondo i nuovi accordi intervenuti di fatto, così da farli riconoscere ufficialmente e poterli far eseguire anche forzatamente.

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