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Mi ha tradito, mi separo!

La scoperta peggiore che rompe la coppia: il tradimento, che arriva come un uragano a spazzare via la serenità coniugale. Chi viene tradito soffre perché sente la mancanza di rispetto dell’altro, perché si vede messo in secondo piano e perché ogni promessa, sotto questa prospettiva, suona come una menzogna.

Teniamo presente, però, che il tradimento può non essere esclusivamente fisico, anche nel caso in cui non venga consumato oppure se il coniuge lasci intendere l’esistenza di relazioni extraconiugali, magari solo fittizie, viola la fedeltà. Pensiamo a chi si vanta con gli amici di avventure immaginarie o a chi pubblica su Facebook foto in atteggiamenti equivoci, magari con commenti allusivi.

L’infedeltà come causa di addebito della separazione

 Accecati dal rancore e dal dolore, talvolta siamo portati a spingerci verso il desiderio di vendetta, cercando di avere la nostra rivincita davanti al Giudice. E’ bene sapere, però, che non sempre il tradimento può avere rilievi giuridici tali da portare all’addebito della separazione.

Se è vero che l’infedeltà rappresenta la violazione di un obbligo coniugale, il tradimento può essere addebitato al coniuge fedifrago solo se è effettivamente l’unica causa scatenante della crisi coniugale e della rottura cui deriva la volontà di separarsi. In altri termini, deve essere l’unica causa che provi l’intollerabilità della convivenza e la fine della comunione spirituale. Quando la crisi è provocata da un insieme di altri fattori (ad esempio l’incompatibilità caratteriale o semplicemente la fine dell’amore), difficilmente sarà possibile riconoscere la separazione con addebito anche davanti ad un tradimento.

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Mi tradisce… voglio le prove per inchiodarlo

Il telefono è spesso staccato, il lavoro richiede sempre più tempo extra oltre il normale orario d’ufficio, le sere a casa vengono immancabilmente trascorse appartati in un’altra camera davanti al computer, tra e-mail, social network e messaggi sul cellulare che arrivano a qualsiasi ora. Piccoli segnali come questi, se considerati all’interno di una vita coniugale caratterizzata da un improvviso e freddo distacco, potrebbero alimentare il sospetto che il coniuge abbia una relazione sentimentale con un’altra persona. E si sa che, quando il dubbio viene insinuato, diventa difficile allontanare il pensiero.

Quando si sospetta l’infedeltà da parte del coniuge faremmo di tutto per avere una risposta certa, ma dobbiamo stare attenti a non commettere azioni illegittime. Istintivamente saremmo portati a cercare da soli le prove del tradimento, sbirciando sul telefonino e frugando tra gli effetti personali del partner. Le eventuali prove ottenute, però, potrebbero non essere utilizzabili in causa.

 Sulle tracce di una prova dell’infedeltà

Il Garante della privacy ha stabilito che è ammessa la possibilità di presentare davanti al Giudice prove che dimostrino la ripetuta violazione da parte dell’altro dell’obbligo di fedeltà coniugale. Il coniuge che porti in giudizio fotografie e video che dimostrano il tradimento da parte del partner in linea di massima non commette alcun illecito, ma il materiale deve essere pertinente alla causa e la raccolta di prove cronologicamente connessa ad essa. Ciò significa che materiali non strettamente legati all’ipotesi di tradimento, ad esempio foto scattate al coniuge in condizioni di ebbrezza, non solo non sarebbero rilevanti a provare l’infedeltà ma costituirebbero una palese violazione della sua privacy.

Analogamente, materiale “datato” che quindi sia stato raccolto molto prima della causa potrebbe essere considerato illegittimo.Facciamo un esempio per comprendere meglio. Il coniuge che decide d’installare sistemi d’intercettazione ambientale (ad esempio microspie o telecamere) rischierebbe di commettere un reato, perché l’intercettazione potrebbe svelare aspetti privati della persona che nulla hanno a che vedere con il procedimento di separazione.

Allo stesso modo aprire lettere o e-mail oppure usare le password dell’altro per accedere al conto corrente online o alle chat private sui social network, potrebbe avere anche delle conseguenze penali.

Per questi motivi potrebbe essere utile affidarsi ad un investigatore privato, soluzione di gran lunga preferibile a quella di agire personalmente, dato che spesso non siamo a conoscenza né dei metodi né dei limiti da rispettare. In ogni caso la pertinenza del materiale raccolto dovrà essere valutata dal Giudice in sede di causa.

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Quando le molestie in famiglia diventano mobbing o stalking

Dieci anni di convivenza coniugale e la persona che prima amavamo inizia ad assumere atteggiamenti via via sempre più arroganti, offensivi per non dire tirannici magari approfittando del nostro carattere pacato. Riversare sull’altro problemi e nervosismi, rimproverarlo per le più banali motivazioni e denigrarlo anche in presenza di amici e parenti. Qualsiasi ragione buona per mortificarlo: dal modesto impiego alla non più atletica forma fisica.

Quando da mogli o mariti realizziamo di essere diventati, di fatto, un capro espiatorio arriva il momento in cui riusciamo a dire basta, e lasciare che tutto finisca. Storie del genere sono all’ordine del giorno e, spesso, è davanti al Giudice della separazione che queste realtà vengono sviscerate per ottenere l’addebito della separazione ai danni del coniuge che ha distrutto l’unione con le sue subdole prepotenze, anche psicologiche. In simili situazioni, negli ultimi anni, i Giudici hanno riscontrato veri e propri fenomeni di mobbing familiare.

Dal mobbing familiare allo stalking

Nelle situazioni più gravi, quando l’altro non si rassegna ed è incapace di accettare l’abbandono, potrebbero anche subentrare veri e propri comportamenti persecutori: telefonate a tutte le ore, minacce, pedinamenti, atti di vandalismo, sono solo esempi di azioni ossessive che rendono la vita impossibile.

Dal 2009 è stato introdotto un vero e proprio reato per tutelare le vittime di queste azioni, oggi comunemente conosciute come stalking ossia “sindrome del molestatore assillante”. Il termine indica tutti quei comportamenti assillanti e invasivi della vita altrui che vengono messi in atto e ripetuti consapevolmente. Si tratta di atti persecutori intenzionali che mirano a provocare nella vittima un grave stato di ansia e paura se non addirittura il timore per la propria incolumità o quella delle persone più vicine (un figlio, un parente, ma anche chiunque sia legato da una relazione affettiva).

 E’ bene ricordare che chi è vittima di simili tormenti non deve esitare ad agire per timore di ritorsioni; potrà infatti ottenere dal Tribunale dei provvedimenti di protezione anche prima dell’eventuale inizio del procedimento di separazione. Questo deve invogliare a denunciare il comportamento del partner, o dell’ex, che potrà essere combattuto civilmente, con l’addebito della separazione, e penalmente con una severa sanzione.

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Addebito: cos’è e quali sono le conseguenze

Tutti siamo consapevoli che esiste l’amore fiabesco e che il “vissero felici e contenti” non riempie solo le pagine dei libri di favole ma anche la vita di tante coppie normali. Per questo non siamo guastafeste ma semplici osservatori della realtà se prendiamo in considerazione i moltissimi casi di coppie che si lasciano, magari anche piuttosto male. Anni di discussioni fanno dimenticare i momenti felici e lasciano entrambi in uno stato di triste apatia. Pensiamo, per esempio, come si sentirebbe una moglie se il comportamento del marito negli anni diventasse denigratorio, insopportabile ed umiliante anche davanti ai figli. Nonostante gli anni trascorsi insieme, potrebbe scegliere di separarsi, esasperata e psicologicamente provata dal comportamento di lui.

L’addebitabilità della separazione

Se il comportamento volontario e consapevole di uno dei due coniugi genera il clima oggettivamente intollerabile della convivenza, o contrasta con i doveri matrimoniali, e questo sta alla base della richiesta di separazione è possibile che sia accolta una richiesta di addebito a carico di quel coniuge. Deve però esserci una correlazione causa-effetto tra il comportamento manchevole del coniuge e la crisi coniugale. Se infatti la condotta contraria ai doveri coniugali fosse la conseguenza di una crisi già in corso, la separazione verrebbe pronunciata senza addebito. Non solo: la condotta contraria ai doveri matrimoniali deve essere intenzionale e non il frutto di nevrosi o malattie di origine psicotica.

Effetti dell’addebito della separazione

In caso di addebito della separazione ci sono conseguenze importanti per il coniuge che perde il diritto all’assegno di mantenimento ed i diritti successori. In particolare il coniuge avrebbe diritto solo all’assegno alimentare nel caso in cui non avesse mezzi di sostentamento propri. Tale assegno copre solo gli essenziali bisogni di vita a differenza dell’assegno di mantenimento che è parametrato al tenore di vita goduto durante il matrimonio.

I doveri del coniuge

Cosa intendiamo quando parliamo di doveri del coniuge? Quando ci sposiamo, contraiamo cinque doveri nei confronti del coniuge: l’obbligo di fedeltà materiale e morale, l’obbligo all’assistenza, l’obbligo alla collaborazione nell’interesse della famiglia, l’obbligo di contribuzione ai bisogni della famiglia e l’obbligo di coabitazione. Se il comportamento di nostra moglie o di nostro marito viola gravemente gli obblighi matrimoniali causando l’irreparabile rottura dell’unione e la separazione, quest’ultima potrebbe venir addebitata al coniuge responsabile del comportamento contrario ai suoi doveri.

La valutazione viene compiuta dal Giudice in base all’effettiva situazione del nucleo familiare. Questo significa che lo stesso comportamento che in una coppia può causare l’addebito della separazione, in un altro caso può non portare allo stesso risultato.

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La conversione religiosa nel rapporto di coppia

Se fino a pochi decenni fa era raro incontrare persone di diverse etnie e differenti confessioni religiose, oggi è una realtà all’ordine del giorno. Le società occidentali contemporanee sono multiculturali: popolazioni provenienti da ogni angolo del mondo inevitabilmente si incontrano con tutti i pro ed i contro che facilmente immaginiamo. Per alcuni, avvicinarsi ad usi e riti appartenenti a paesi o religioni distanti dal vissuto quotidiano è soltanto una moda passeggera, ma per altri può significare un cambio radicale di abitudini e convinzioni difficile da gestire.

Immaginiamo cosa potrebbe accadere in una famiglia se la moglie cambiasse religione. Un nuovo gruppo di preghiera, strane abitudini alimentari, cerimonie sconosciute, stravolgono le abitudini casalinghe. Lei dedica sempre più tempo allo studio del suo nuovo credo, è sempre più spesso fuori casa e, quando è presente, ha atteggiamenti singolari anche davanti ai figli piccoli, che cerca di iniziare alla nuova fede. Nella coppia probabilmente non ci sarebbe più un confronto sereno e obiettivo, soprattutto perché il marito difficilmente accetterebbe che i bambini seguissero le nuove scelte della madre. Una convivenza su due mondi così distanti sarebbe impossibile per i coniugi e le liti continue porterebbero, con probabilità, alla separazione. Ma ci potrebbero essere ulteriori conseguenze per la moglie nell’ambito del giudizio?

La fede religiosa non può essere causa di addebito della separazione

In sé e per sé la decisione di cambiare fede non è un fattore rilevante ai fini della separazione, né può essere considerato motivo di addebito. Il nostro è uno stato laico quindi chiunque è libero di professare qualsiasi confessione religiosa. Quando il credo religioso di uno dei due coniugi interferisce nella vita matrimoniale provocando una crisi irrisolvibile, infatti, diviene la causa che rende intollerabile la prosecuzione della convivenza. Se, però, la conversione porta il coniuge a violare i suoi doveri matrimoniali, il partner potrebbe decidere di chiedere non solo la separazione ma anche l’addebito.

 I riti o le nuove usanze della moglie, quindi, non sono in linea di massima motivi sufficienti per i quali il marito possa ottenere la separazione con addebito. La situazione sarebbe diversa se le sue scelte si rivelassero dannose per i figli oppure se avesse comportamenti gravemente contrari ai suoi doveri verso la famiglia o il marito, per esempio optare per scelte sessuali orientate alla promiscuità oppure non coabitare più con il marito o ancora smettere di collaborare nell’interesse della famiglia.

Non possono esistere regole certe perché la complessità di situazioni come queste impone una valutazione mirata e specifica da parte del Giudice, che esaminerà sempre il caso concreto prima di prendere la decisione più opportuna.

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Tollerare le mancanze dell’altro non significa rinunciare ai propri diritti

Spesso, quando si parla di mancato rispetto dei doveri coniugali, si tende a pensare all’infedeltà. Ma quello della fedeltà nei confronti del coniuge non è l’unico obbligo che c’è tra due persone sposate. Per esempio marito e moglie dovrebbero contribuire insieme ai bisogni della famiglia e collaborare nel suo interesse. Se, nel corso degli anni, uno dei due viene meno a quest’impegno, causando una crisi irreparabile che porta la coppia a lasciarsi, tale comportamento potrebbe determinare l’addebito della separazione.

Per provare a fare un esempio concreto, potremmo pensare ad una moglie che da qualche anno ha smesso di contribuire, sia materialmente che moralmente, alle necessità familiari. Lavoratrice saltuaria, nei primi anni del matrimonio si è dedicata alla gestione della casa e, dopo la nascita dei figli, alla loro crescita ed educazione. Col tempo, il suo impegno lavorativo è progressivamente calato. Ritenendo insoddisfacente ogni impiego che le veniva proposto, ha finito per autoescludersi dal mercato del lavoro. In parallelo, anche l’apporto all’interno della famiglia si è ridotto considerevolmente. E’ diventata utente abituale di siti internet di gioco d’azzardo, dove spende gran parte del denaro utile a far fronte alle spese domestiche. Il marito, per il bene dei figli e l’amore per la moglie, inconsapevole del suo vizio, ha sopperito a lungo alle mancanze di lei, tollerando la sua apatica condotta. Ha resistito e cercato di salvare a ogni costo il matrimonio, ma venuto a scoprire del vizio del gioco, la classica goccia che fa traboccare il vaso, decide di chiedere la separazione.

L’irrilevanza della tolleranza ai fini dell’addebito della separazione

Il marito potrebbe ottenere la separazione con addebito alla moglie anche se ha tollerato per molto tempo il comportamento di quest’ultima.

La “pazienza” del marito si è basata sulla volontà di salvare a tutti i costi il rapporto con la moglie: è in quest’ottica che ha deciso di mettere davanti ai propri sentimenti quelli della famiglia e dei figli. D’altronde, chi sbaglia potrebbe rendersi conto dell’errore commesso e decidere di rimediare: ecco perché la tolleranza potrebbe essere la soluzione migliore per rimediare a una crisi temporanea. Va da sé che, se nulla cambia da parte del coniuge che ha agito malamente, la sopportazione potrebbe terminare e questo non deve influire sulla possibilità dell’altro coniuge di far valere fino in fondo i propri diritti.

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L’assegno di mantenimento non deve comprendere prestiti o regalie

Prima della crisi che ha portato alla scelta di separarsi, marito e moglie si erano accordati per avviare l’attività commerciale di lei. Fino al momento dello strappo, il marito ha quindi finanziato economicamente il progetto della moglie, ma all’indomani della richiesta di separazione l’attività commerciale non risulta ancora avviata e lui non ha più intenzione di darle altro denaro. La moglie, che al momento della separazione non lavora, vorrebbe avere un assegno di mantenimento che le permetta anche di poter proseguire autonomamente il suo progetto imprenditoriale.

Determinazione dell’assegno di mantenimento

L’assegno di mantenimento ha natura assistenziale ed è basato sul principio di solidarietà coniugale. Il suo scopo è permettere alla parte economicamente più svantaggiata della coppia di mantenere lo stesso tenore di vita goduto durante il matrimonio (o potenzialmente godibile in base ai redditi percepiti e alla situazione patrimoniale complessiva).

Per riconoscere l’assegno di mantenimento, il Giudice deve in primo luogo compiere una valutazione del tenore di vita coniugale e verificare se ci sono tutti i presupposti. Ciò significa che il coniuge potenzialmente beneficiario dell’assegno deve dimostrare di non avere i mezzi necessari per poter mantenere, da separato, lo stile di vita precedente né deve essere in grado di procurarseli. Non solo: per poter ottenere l’assegno è indispensabile che la separazione non venga addebitata al coniuge che ne fa richiesta. L’addebitabilità della separazione, infatti, fa automaticamente decadere il diritto all’assegno. Essenziale sarà pure la disponibilità dell’altro coniuge di mezzi idonei a sostenere le spese di mantenimento.

Il Giudice, dopo aver determinato il tenore di vita coniugale, valuterà la situazione patrimoniale dei due coniugi, considerando non solo l’attività svolta da ciascuno dei due, ma anche la rispettiva capacità di guadagno e gli eventuali beni di proprietà.

La somma dovrà consentire al coniuge beneficiario lo svolgimento di attività inerenti lo sviluppo della vita personale, fisica, culturale e di relazione, come attività sportive e ricreative. Tuttavia, non viene genericamente previsto che esso venga utilizzato per effettuare investimenti o per consentire l’avvio o lo svolgimento di un’eventuale attività imprenditoriale soprattutto nei casi in cui sul punto non esiste un accordo tra le parti.

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Shopping compulsivo: in caso di separazione, si è a rischio di addebito

Molto spesso si è talmente sicuri di conoscere a fondo una persona, specie se è quella con cui si è scelto di vivere il resto della propria vita, che quando si scoprono lati nascosti o particolari scomodi che la riguardano, si fa fatica a credere che questi siano veri.

Pensiamo ad un marito che, dopo anni di matrimonio, inizia a notare che la moglie spende cifre esorbitanti per l’acquisto di beni futili, come abiti, gioielli, borse, cosmetici. Nonostante le ottime disponibilità economiche della famiglia, si rende conto che la moglie non ha la minima capacità di amministrare le finanze familiari e che le sue spese frivole sono il frutto di un impulso irrefrenabile all’acquisto. Il marito perde la fiducia e le liti dovute ai continui sprechi di lei si susseguono diventando sempre più accese, finché il marito decide di agire e chiedere la separazione. In questo caso egli potrebbe ottenere anche l’addebito a carico della moglie

Questo si verificherebbe se si dimostrasse che la causa della separazione è proprio il comportamento irresponsabile della moglie che ha sperperato molto denaro sottraendo risorse destinate alla famiglia e trascurandone gli affetti.

La moglie perderebbe il diritto all’assegno di mantenimento e, tutt’al più, le verrebbe riconosciuto il solo assegno alimentare, che sarebbe decisamente meno oneroso per il marito. Gli alimenti, infatti, hanno lo scopo di far fronte alle sole esigenze primarie di vita e non al mantenimento del tenore di vita goduto durante il matrimonio.

Lei, però, potrebbe sostenere la sua innocenza e pretendere che le venga riconosciuto un assegno di mantenimento che, date le disponibilità del marito potrebbe raggiungere una somma piuttosto importante.

L’eccezionalità del disturbo da shopping compulsivo

Il Giudice, per valutare oggettivamente un caso come questo con ogni probabilità farà svolgere una consulenza tecnica d’ufficio (o CTU), al fine di esaminare approfonditamente la personalità della moglie e capire fino a che punto risulti compromessa.

Solitamente, in caso di nevrosi o malattie di origine psicotica non può essere riconosciuto l’addebito della separazione. Tuttavia, secondo la Cassazione, lo shopping compulsivo può rappresentare un caso a parte perché legato ad un mero appagamento di bisogni personali fine a se stessi.

Quindi, qualora la CTU confermasse la diagnosi di shopping compulsivo, e questa fosse la causa dell’intollerabilità della convivenza, molto probabilmente la separazione verrebbe addebitata alla moglie, con tutte le conseguenze del caso.

Teniamo presente comunque che queste situazioni costituiscono episodi a sé stanti, che devono essere analizzati e valutati in maniera indipendente l’uno dall’altro.

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Quando il rifiuto dell’intimità causa l’addebito della separazione

Nella comunicazione contemporanea l’astinenza sessuale durante il matrimonio è diventata motivo d’ironia nell’eterno gioco tra le parti, ma da un punto di vista più strettamente giuridico rappresenta una violazione dell’obbligo coniugale di assistenza morale.

Il marito che, ad esempio, respinge ogni tipo di rapporto sessuale o affettivo con la moglie è responsabile di un comportamento lesivo e offensivo nei suoi confronti, perché i ripetuti rifiuti possono provocarle, alla lunga, frustrazione e disagio. Basti pensare a quanto possa risentirne la dignità della moglie, umiliata di fronte a ogni rifiuto.

L’astinenza fa scoppiare la coppia

Se l’astinenza non è dettata da malattie fisiche o motivazioni psicologiche, l’intimità contribuisce a creare e fortificare la comunione materiale e spirituale sulla quale si fonda il matrimonio. E’ l’amore, anche carnale, a tenere in vita un rapporto.

Sotto questa prospettiva, il rifiuto ad avere rapporti sessuali con il coniuge, se non debitamente motivato, può comportare l’affievolirsi di quella comunione coniugale che è base della vita a due. Un simile atteggiamento può ferire profondamente tanto quanto un tradimento: fa male, e chi subisce il rifiuto, spesso, si tormenta interiormente, nel vano tentativo di capire cosa non vada più bene in lei o in lui. Il fatto di non essere più desiderati colpisce gravemente la dignità di chi si vede ogni volta respinto, generando, col tempo, persino possibili disagi psicofisici.

Di fatto, il rifiuto d’intrattenere rapporti affettivi e sessuali del coniuge rappresenta causa sufficiente per chiedere la separazione e l’addebito della stessa e, in genere, non può essere giustificato come ritorsione o reazione rispetto al comportamento dell’altro e, nel caso in cui la moglie chiedesse la separazione perché non sopporta più di vedersi rifiutata dal marito, il Giudice potrebbe dichiarare l’addebito della separazione a quest’ultimo.

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Suocere invadenti e abbandono del tetto coniugale

Italiani popolo di mammoni…eterno luogo comune che però ha un fondo di verità. Con i giovani sempre più in difficoltà nell’emanciparsi dalla famiglia di origine a causa dell’emergenze occupazionali e immobiliari, per citare quelle più macroscopiche, tra genitori e figli il cordone ombelicale è duro da spezzare. Chiamate in causa più di tutte sono le mamme che nel dare amore, spesso faticano a lasciare ai figli la dovuta indipendenza. Quando i figli volano via dal nido e, magari, si sposano, queste mamme diventano suocere ed il pizzico di invadenza e indiscrezione fino a ieri tollerato, se coinvolge la nuova coppia, può diventare un problema.

Statisticamente è il rapporto tra la moglie e la madre del marito a essere maggiormente a rischio di tensioni e conflitti. La prima perché teme il confronto con la figura materna e finisce per sentirsi sotto esame; la seconda perché, timorosa di perdere l’affetto del figlio, non muta il modo di comportarsi dopo le nozze, con la conseguenza di compromettere la privacy della nuora e della coppia in generale.

E’ per tutti facile da immaginare che, a causa di una simile intromissione, l’equilibrio tra i coniugi possa risentirne. La presenza costante della suocera dà vita a nervosismi e attriti aggravati dal comportamento del marito che si schiera in difesa della madre o ne accetta passivamente le intromissioni senza dire nulla. La suocera non rispetta la privacy degli sposi, arrivando persino a presentarsi nella loro casa senza preavviso ed accedervi anche quando nessuno è presente.

Dopo anni di tolleranza, la moglie potrebbe arrivare alla fine della sopportazione e decidere di andarsene definitivamente, abbandonando il tetto coniugale. Il marito, deluso e arrabbiato per una simile scelta, potrebbe decidere di chiedere la separazione, convinto che il comportamento della donna possa giocare in suo favore.

Abbandono della casa familiare e addebito della separazione

L’abbandono volontario e unilaterale della casa coniugale, seguito dal rifiuto di farvi ritorno, può rappresentare motivo per ottenere la separazione con addebito. L’abbandono, infatti, costituisce violazione dell’obbligo di coabitazione, obbligo che nasce dal vincolo matrimoniale e che i coniugi sono tenuti a rispettare..

Però bisogna considerare il fatto all’interno del suo contesto. Se infatti l’allontanamento dalla casa familiare non è la causa che determina la crisi tra marito e moglie ma è la conseguenza di problemi irrisolvibili già in atto oppure è l’effetto della condotta intollerabile dell’altro coniuge, non potrà esserci addebito.

L’abbandono dell’abitazione coniugale da parte della moglie sarebbe solo la conseguenza di una crisi che dura da anni e che deriva dall’intromissione continua della suocera nella vita della coppia, quindi è davvero improbabile che venga pronunciato l’addebito a suo carico. Stessa cosa potremmo dire se l’abbandono fosse causato da gravi motivi, come la violenza del coniuge, o da una crisi che dura da mesi o anni che rende insopportabile l’idea di continuare  a vivere sotto lo stesso tetto.

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Se cambiare lavoro diventa un problema di coppia

Dopo anni di lavoro subordinato, un marito decide di avviare un’attività in proprio per seguire la sua più grande passione. Vuole aprire una libreria indipendente, per cui ha già iniziato a prendere i primi accordi per l’affitto dei locali.

La moglie, pur essendo a conoscenza di questa iniziativa da tempo, non la condivide. Anzi, l’ha sempre osteggiata, preoccupata delle possibili conseguenze economiche. Teme la perdita del reddito fisso che serve alla famiglia e, in linea generale, è preoccupata che la nuova attività possa gravare sui risparmi accumulati da entrambi.

Le discussioni in merito, inizialmente moderate, si accendono sempre di più man mano che il progetto assume una forma più concreta, per aggravarsi definitivamente quando il marito informa la compagna di aver presentato la lettera di dimissioni.

Il clima di conflittualità è esasperato al punto che la moglie medita di chiedere la separazione, ipotizzando che questa possa essere addebitata al marito dato che la crisi coniugale ha una specifica motivazione: la volontà di lui di cambiare lavoro, cimentandosi con un’attività imprenditoriale.

Il diritto a seguire le proprie aspirazioni

Dare libero sfogo alle proprie passioni attraverso un nuovo impiego, più in linea con le nostre inclinazioni non costituisce di per sé motivo di addebito della separazione perché risponde al diritto di ciascun individuo di esprimere liberamente la propria personalità anche sul piano economico-sociale. Esiste un limite, però, rispettare e assolvere i doveri di cura e assistenza alla famiglia.

Ciò significa che, se la decisione di cambiare lavoro, o avviare un’attività in proprio, non va a violare gli obblighi di collaborazione familiare e non è incompatibile con i doveri fondamentali che derivano dal matrimonio, con ogni probabilità l’eventuale separazione sarebbe pronunciata senza addebito.

Abbandonare il posto di lavoro ma avere prospettive professionali

Il marito assai difficilmente vedrà addebitarsi la separazione perché, sebbene abbia lasciato il lavoro “fisso”, ha iniziato una nuova attività con la quale progetta di poter far fronte al mantenimento della famiglia senza violare i suoi doveri di solidarietà familiare.

Possiamo dire, quindi, che non è la scelta di cambiare lavoro ad essere sindacabile, ma l’impegno e la dedizione verso la famiglia che devono rimanere il più possibile immutati.

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